Ci scordiamo di essere liberi

di Gianluca De Donno

Così pallida, sicura, mi spaventa,  la dittatura di centro. Il mondo ne ha conosciute di dittature  esecrande, nefaste, ne ha conosciuti di fascismi, bolscevismi, di regnetti di Satrapi troppo militari o troppo progressisti.

Tutt’ora queste ritornano nella memoria, nelle paure. Giustamente.  Non sono ancora  fantasmi lontani di cui ci siamo liberati e occorre tenere sveglie le coscienze, essere pronti a ricordare e condannare le loro stragi, le loro perversioni ideologiche, l’annichilimento dell’uomo da queste così finemente perpetrato.

Ma c’è  una profonda e più strisciante dittatura, contemporanea, quotidiana, asfissiante e silenziosa che ci prende e ci immerge in una bella libertà obbligatoria. Effettivamente siamo molti liberi. Di più: siamo affogati di libertà, sprofondiamo nella libertà di dire, fare, comprare, viaggiare, di disconoscere, di abbandonare, di trafugare sogni, quadri, di bere, dormire e così via. Abbiamo così tante libertà che ci siamo dimenticati di essere liberi. E ci piace da matti delegare qualcuno a delegare qualcuno che scelga qualcun altro che sceglierà qualcuno il cui patronimico sarà scritto in un seggio triste di piccolo paese. E ci piace dire che sono tutti uguali e non cambia niente. Ci piace da morire.  E possiamo scegliere se andare quest’estate in Catalogna o magari su nei fiordi.

E tutto intorno un centro indistinto. Un moderatismo pesante di equilibri piuttosto facili da spezzare ma altrettanto agevoli da ricomporre di differenze indistinte e tutt’al più cromatiche di linguaggi e parole così prevedibili e monotoni. Magari non è che son tutti uguali e che forse ci sono soprattutto loro: un enorme indistinto centro, beato, attento a non sembrare, o a sembrare abbastanza diverso. E la corsa al centro, la rincorsa al centro, questo nuovo sport tanto in voga sembra tanto falso, in fondo è tutto centro.

No non penso a quella operetta all’italiana che dopo una ventina d’anni di baldoria continua sta tristemente facendo una fine patetica come quella dei racconti di Gogol.  Probabilmente è stata necessaria per prepararci al nuovo ma nulla di più.

Il nuovo che avanza è al centro. Lì bisogna indagare e trovare tutto. Tutto è centro insomma. Centro più tanti bla bla bla sonnolenti che si possono comodamente leggere su giornali d’ogni risma e in quegli spettacoli affollati di miscredenti un po’ ortodossi che dicono quello che non sanno dire però lo ripetono bene e ti tocca anche stare attento per capire le sfumature ed evitare di assistere a un monologo polifonico.

Mi pare che alla fine sia tutto un cercare qualcuno che può offrire interessanti prospettive e portare a equilibrate e non traumatiche decisioni. Equilibrate e non traumatiche, prospettive interessanti, progresso, queste le parole d’ordine del nostro tempo. Magari è tutto un gioco di suoni, chissà.

E nessuno che dica mai nulla di interessante. Neanche in metro.

C’era un tempo in cu Majakovskij scriveva  A piena voce e un quattordici di Aprile decideva di sé:  ma era un altro paese e altri tempi. Io mi accontenterei di un Bartleby, professione scrivano, anche in affitto.

In mancanza godiamoci quest’enorme lago immobile.

Dimenticavo. Viva il libero mercato. Che ci ha aiutato e ci ha salvato.

03/06/2010