• da “Il Foglio”
di Angiolo Bandinelli
Girello per wikipedia e mi imbatto nel termine “ateo”. Sono due, apprendo, le forme in cui l’ateismo per lo più si presenta: una che nega l’esistenza stessa di una qualunque divinità o realtà trascendente l’uomo, sia in forme teiste che panteiste; ed una, più sfumata - l’agnosticismo - che raccoglie quanti sulla questione della esistenza/inesistenza di dio sospendono il giudizio perché, dicono, non c’è modo di risolvere il dilemma.
Proprio gli atei sono convinti di sapere cosa sia la
religione. Vengono, per lo più, da una cultura nata in fasce
illuministe, per la quale la religione è un inganno, un imbroglio, una
truffa, se non oppio dei popoli. “Primus in orbe deos fecit timor”,
scrivono Stazio e Petronio, forse sulla scia di Lucrezio, “fu la paura
la prima nel mondo a creare gli dei”. Pare che nel mondo vi sia una
quantità di associazioni di atei, disinvolte e aggressive nella difesa
delle proprie verità. Spesso, si fregiano della qualifica di
“umanistiche”, ritenendosi custodi ed interpreti dei più autentici
valori dell’uomo e dell’umanità. Platone propose punizioni severissime,
fino alla pena di morte, per gli atei. Deprecabile. Nel 1546 il
tipografo e poeta Etienne Dolet vene torturato, strangolato e arso sul
rogo a Parigi. Deplorevole.
Più ci penso, però, più mi convinco che proprio gli atei sono i migliori propagandisti di dio. Dio è il loro vero, necessario interlocutore. Perché possano così efficacemente discuterne, polemizzare e lottarci contro, perfino odiarlo, è necessario che dio ci sia, esista in tutta la pienezza del termine. Affari loro. Attualmente il termine ha trovato una nuova declinazione grazie ai cosiddetti atei devoti, figure pubbliche che hanno avuto negli ultimi tempi un ruolo notevole nel dibattito culturale, politico e religioso, almeno nel nostro paese (non so se un qualche corrispondente si trovi anche altrove).
Gli atei
devoti sono accaniti avversari degli atei-atei, quelli che sono
puramente e semplicemente atei. Degli atei devoti mi colpisce
l’ossimoro della definizione. Una contrapposizione che cela un sottile
connubio, mi pare. L’ateo devoto dice di essere, appunto, un ateo, un
non credente in dio. Questo non credente, tuttavia, ritiene di dover
restare devoto rispetto alle disposizioni di fede o semplicemente
etiche emanate dall’autorità religiosa, considerando però tale
esclusivamente quella cattolica. Credo infatti che l’ateo devoto sia
figura che si può incontrare solo nell’ambito del cattolicesimo.
Confesso di non amare la definizione, nella sua prima come nella seconda metà. Del termine “ateo” ho detto, il termine “devoto” mi lascia ancor più perplesso. La devozione è parte integrante dell’educazione religiosa. Da bambino, venivo esortato da mia madre a dire le “devozioni”, cioè a pregare. L’espressione era bellissima, me ne è restato un dolce ricordo. Nella tradizione cattolica, la devozione viene consigliata come pratica di amore individuale nei confronti di Dio o di una figura religiosa - meglio se un santo - da esercitarsi però fuori della liturgia ecclesiale. Tipica forma di devozione cattolica è la recita del rosario. Ma la devozione è riconosciuta anche dal filosofo Hegel, che la pone tra i momenti costitutivi della”coscienza infelice” (seguo ancora wikipedia, in questa sede può bastare).
La coscienza infelice è un concetto chiave della “Fenomenologia dello Spirito” perché, secondo Hegel, solo passando attraverso il suo dramma si giunge dialetticamente alla conciliazione e alla fusione tra il finito e l'infinito. La coscienza, infatti, raggiunge il suo stato di massima infelicità nel momento in cui, nella radicale distanza tra l'uomo e Dio, si presenta la separazione tra il mutevole e l'immutabile, tra la realtà sensibile e la realtà ultrasensibile.
Le religioni, rappresentate nell’Occidente
dall'Ebraismo e dal Cristianesimo medievale, non consentono però di
soddisfare la pretesa di cogliere in una presenza particolare e
sensibile un Assoluto che si dimostra irraggiungibile. Solo
nel travaglio della “coscienza infelice” questo divario può essere
colmato, attraverso tre momenti dialettici. Il primo è quello
della devozione - appunto - nel quale il pensiero religioso è incapace
di elevarsi a concetto; segue poi l’operare mondano nel quale la
coscienza cerca di emergere attraverso il proprio affaccendarsi;
infine, viene la mortificazione di sé, il momento nel quale l’io
sperimenta la totale mistica ascetica in favore di dio.
Dopo tanti giri, l’ossimoro ora si capovolge. L’ateo, come abbiamo visto, afferma e ha bisogno di dio, il devoto è solo figura di superficiale beghinismo, dedito a pratiche esteriori o a esperienze misticheggianti. Ma resto perplesso, questa rappresentazione è banale. Gli atei devoti sono troppo bravi. Forse, sono le definizioni di wikipedia ad essere insufficienti.