Trapianti, la fede aiuta a sopravvivere
La
religiosità, intesa come ‘cercare l’aiuto di Dio’,
‘avere fede in Dio’, ‘affidarsi a Dio’, ‘cercare di vedere anche nella
malattia
la mano di Dio’, può migliorare la prognosi di pazienti con
insufficienza
epatica grave, sottoposti a trapianto di fegato? Per dare una risposta
in
termini prognostici a tale quesito è stato somministrato a un gruppo di
179
candidati, sottoposti a trapianto fra il 2004 e il 2007, un
questionario sulla
religiosità composto da 10 items.
I risultati dimostrano l’ipotesi che la fede in Dio è associata in modo significativo con la sopravvivenza dei pazienti. La ricerca dell'Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), in collaborazione con il Dipartimento di Trapiantologia epatica dell'Azienda ospedaliero-universitaria pisana, è stata pubblicata sulla rivista scientifica americana ‘Liver Transplantation’.
“I
candidati al trapianto di fegato vengono sottoposti
di routine a una valutazione psicologica”, spiega Franco Bonaguidi,
psicologo
presso l’Ifc-Cnr, “che ha lo scopo di aiutarli ad affrontare questo
momento
particolarmente difficile e a
identificare eventuali controindicazioni all’intervento. Poiché
i
pazienti riferivano un profondo ritorno alla religione e alla
spiritualità, la
nostra ricerca ha indagato tale aspetto, indipendentemente dal credo
religioso
e dalla partecipazione alle funzioni ecclesiastiche”.
Durante
il follow-up di 4 anni successivo al trapianto,
18 pazienti sono morti. “Per comprendere quali fattori fossero stati in
grado
di predire la mortalità dei pazienti, abbiamo utilizzato un’analisi
statistica
nota come modello di Cox”, prosegue Bonaguidi, “prendendo in esame
fattori come
l’età dei pazienti, il sesso, il livello di istruzione e occupazione,
il tipo e
la gravità della malattia, l’età del donatore e alcune variabili legate
all’intervento chirurgico, come il sanguinamento peri-operatorio.
Infine, abbiamo
testato con lo stesso rigore scientifico il ruolo della religiosità”.
In
particolare, le risposte sono state esaminate mediante un’analisi
fattoriale “che
ha permesso di evidenziare, attraverso una procedura matematica, le
principali componenti
della religiosità, definite come ricerca ‘attiva’ di Dio, attesa
‘passiva’ di
Dio e generico atteggiamento fatalistico”.
I
risultati dello studio mostrano che “le uniche
variabili in grado di predire la mortalità dei pazienti dopo il
trapianto sono
la durata della degenza in terapia intensiva e, quale fattore negativo,
l’assenza di ricerca di Dio, con un rischio relativo rispettivamente di
1.05 e
3.01”, continua il ricercatore dell’Ifc-Cnr. “Ciò significa che i
pazienti che
non dichiaravano tale ‘ricerca di Dio’ durante il follow-up avevano un
rischio
di morte di tre volte superiore a coloro che l’hanno dichiarata.
Esprimendo gli
eventi letali e la sopravvivenza con il metodo Kaplan-Meier, a quattro
anni dal
trapianto era ancora in vita il 93,4% dei pazienti con ricerca attiva
di Dio,
con una mortalità del 6,6% e un vantaggio appunto triplo sugli altri
(79.5% in
vita, 20,5% di mortalità). La
differenza è
statisticamente notevole, mentre la probabilità di ‘falso positivo’,
cioè che
sia stata rilevata una differenza inesistente, è del 2.6%, nettamente
inferiore
alla soglia convenzionale del 5%”.